Monday, September 1, 2014

NPWJ

Nell'estate del 1998 non avevo il telefonino, così si chiamavano all'epoca i telefoni cellulari. A dirla tutta l'avevano in pochi, anche perché' le tariffe erano proibitive. Marco Pannella aveva un Ericsson, Emma Bonino un Nokia, altri un enorme Motorola. Non mi ero mai posto il problema di esser rintracciabile al di fuori di un ufficio, fino a quando, durante la Conferenza diplomatica che si tenne a Roma tra giugno e luglio di quell'estate sullo statuto della Corte penale internazionale non mi fu chiesto di fare delle corrispondenze sui negoziati per Radio Radicale. Nei momenti di pausa andavo a cercare un telefono fisso in una delle varie sale destinate agli incontri per diplomatici o organizzazioni non-governative a cui farmi chiamare dopo aver usato un telefono pubblico da qualche parte. Da allora il telefonino divenne un compagno di lotta, e di vita, al quale ormai sembra impossibile rinunciare.

Nell'estate del 1998 stava per arrivare a conclusione la prima fase di una delle mobilitazioni storiche del Partito Radicale, quella che Pannella chiamava "il primo segmento di giurisdizione internazionale". L'Assemblea generale delle Nazioni unite dell'anno precedente aveva finalmente accettato l'offerta italiana di ospitare una conferenza di plenipotenziari per arrivare all'adozione dello statuto della Corte penale internazionale nei locali della Food and Agriculture Organization, la FAO. Dal 15 giugno, per cinque settimanale, circa 150 delegazioni si confrontarono giorno e notte per arrivare a un documento di compromesso che potesse tenere insieme in modo coerente le tradizioni legali civiliste e di common law, senza offendere orientali e "musulmani", prevedesse un ruolo attivo per il Consiglio di Sicurezza, definisse in modo chiaro i crimini di competenza della Corte, prevedesse i più alti standard procedurali e le massime guarentigie per gli imputati e, naturalmente, escludesse la pena di morte.

La notte, anzi all'alba, del 17 luglio il tutto si concluse dopo un'ultima settimana di tensioni altissime tra il gruppo dei paesi cosiddetti like-minded, capitanati dall'Australia che assieme agli europei - Francia esclusa - al Canada, il Sudafrica e il Senegal, erano da sempre a favore della creazione della Corte, e gli USA. Tale e tanto era stato lo scontro che c'era già chi, ONG in testa, invocava una seconda conferenza pur non arrivare ad adottare uno statuto che fosse il frutto di una serie di compromessi al ribasso. E pensare che tutti i membri della delegazione americana erano a favore dello Statuto per come era ed erano le migliori "gole profonde" che ci potessero essere per le mie corrispondenze e per le soffiate che si facevano agli imbranati cronisti italiani che si fregiavano del titolo di diplomatic correspondent sul loro biglietto da visita. Poco importava che la giurisdizione della Corte sarebbe stata attivabile in casi in cui uno Stato membro dell'ONU non volesse o non fosse in grado di perseguire individui imputati di genocidio, crimini di guerra o contro l'umanità, e che il Consiglio di Sicurezza avrebbe potuto bloccare, oltre che riferire, un'indagine qualora questa fosse stata ritenuta contraria alla sicurezza internazionale, agli USA non garbava l'idea che i loro militari, impegnati in tutto il mondo, potessero un giorno esser processati da un tribunale che non fosse loro. O almeno questa era la propaganda ufficiale.

In quella estate del 1998 gli USA avevano da poco subito una seria di gravissimi attacchi "terroristici" in Africa orientale e, "the only remaining super-power" come ripeteva sempre l'Ambasciatore David Shaffer, il capo delegazioni USA ai negoziati, si riservava di usare la forza come e dove voleva quando erano a rischio cittadini e interessi statunitensi. Hai voglia a spiegargli che tutti noi, almeno al Partito Radicale, eravamo certi che se e quando costretti a usare la forza, gli americani l'avrebbero usata rispettando il diritto umanitario internazionale, e che comunque, come già era stato ventilato, i vari paesi impegnati in missioni di pace internazionali avrebbero firmato dei SoFA, Status of Forces Agreement, accordi per cui i militari imputati di crimini sarebbero stati rimpatriati per esser sottoposti a provvedimenti penali e disciplinari da una giurisdizione militare domestica, Clinton non sentì ragioni.

Il 18 luglio 1998, al momento dell'ultima sessione dove la bozza di statuto preparata dal drafting committee presieduto dal Professore Italo-egiziano, ma anche cittadino USA, Cherif BAssiouni e vistata dal comitato d'insieme presieduto dal diplomatico canadese Philippe Kirsh, fu presentata alla planaria presieduta dall'ex-ministro della giustizia italiano Conso, l'Ambasciatore Sheffer alzo la mano per manifestare che gli USA non avrebbero consentito che il documento fosse adottato per consenso e chiese un voto segreto. Ne nacque un infinita serie di dichiarazioni, alcune delle quali sarebbero poi stati studiate a fondo per capire chi voto' come, che si conclusero col voto di 120 a favore 7 contro e 21 astenuti. A oggi nessuno sa per certo chi si sia schierato cogli americani in quella pessima figura in mondovisione. Mentre i favorevoli scoppiarono in un irrituale urlo in plenaria seguito da un applauso liberatorio, ed Emma Bonino che ballava per la contentezza sula sedia della delegazione della Commissione europea, e le ONG nella balconata dettero luogo a festeggiamenti da stadio, i diplomatici americani piangevano.

Non avevo mai visto un diplomatico piangere, qualche anno dopo il Partito Radicale avrebbe fanno scendere qualche lacrimucciai alle delegazioni russa e vietnamita che tentarono di cacciarlo dall'Ecosoc, ma un pianto per aver perso un voto era cosa veramente rara. Però eran lacrime da stress e sincera gioia. Tutti, nella delegazione USA, erano a favore della Corte, anche l'Ambasciatore Sheffer, ma gli ordini da Washington erano di arrivare allo scontro perché così imponeva la maggioranza repubblicana nel Congresso. E, in particolare, la commissione esteri del Senato presieduta da Jessy Helms che faceva vanto di non aver mai posseduto il passaporto…

Nell'estate del 1998 c'erano anche i mondiali, la sera della finale, che precedette la conclusione della Conferenza diplomatica di una decina di giorni, l'Ambasciata americana organizzo' un mega party nello spazio delle ONG offrendo un rinfresco a tutti gli accreditati alla FAO. La Francia vinse, non senza polemiche, quella stessa Francia, che con altrettanto atteggiamento ambiguo, continuava a creare problemi ai like-minded durante i negoziati (al momento della ratifica del Trattato di Roma i francesi non riconobbero la giurisdizione della Corte sui crimini di guerra). Tra i diplomatici americani con cui eravamo più amici c'erano due: William "Spence" Spencer, e Charlie Brown.  Spence non era un diplomatico di carriera, Charlie si. Spence si sarebbe dimostrato fondamentale qualche mese più avanti per l'incriminazione di Milosevic, Charlie lo rincontrai 9 anni dopo alla Farnesina a una conferenza sulle relazioni transatlantiche. Lui sempre in giacca seersucker bianca e e leste e pipillon regimental io non più.

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Dalla risoluzione adottata nel dicembre 1997 al Palazzo di Vetro che convocava la Conferenza diplomatica di plenipotenziari per adottare lo stato della Corte penale internazionale all'effettiva tenuta dell'evento alla FAO, Non c'è Pace senza Giustizia, l'associazione del Partito Radicale creata ad hoc nel 1993 per promuovere l'obiettivo della creazione dei tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e il Ruanda per l'istituzione della Corte, aveva lanciato una programma di assistenza legale per i paesi poveri - si chiamava Judicial Assistance Programme o JAP. Me lo ero inventato chiacchierando con Niccolò Figa-Talamanca in una delle interminabili chiacchierate che occupavano il poco tempo libero di chi gravitava intorno all'ufficio del Partito Radicale all'866 UN plaza di Manhattan. Niccolò lo avevamo reclutato con Marco Cappato, anzi headhunted come si dice in gergo, durante un pranzo a New York mentre era visiting fellow alla Columbia University e collaborava con l'ONG Lawyers Committee for Human Rights (che oggi si chiama Human Rights First). Italiano di madre greca, era scappato a studiare in Inghilterra appena aveva potuto e dopo la laurea in legge aveva lavorato per un paio d'anni al Tribunale per la ex-Jugoslavia all'Aia.

A differenza dei suoi colleghi giuristi, Niccolò aveva un interesse anche per i risvolti e le implicazioni politiche inerenti la creazione del "primo segmento di giurisdizione penale" (un'espressione che lo divertiva molto) e non era ossessionato esclusivamente dal diritto penale internazionale. Non ci volle molto per convincerlo che il suo tempo sarebbe stato speso meglio con Non c'è Pace senza Giustizia. L'unico altro italiano coinvolto nella fase preparatoria dello statuto era David Donat-Cattin, coordinatore dell'ELSA, la European Law Students Association. Malgrado gli ottimi rapporti con David, mantenutisi a tutt'oggi che è segretario generale di Parliamentarians for Global Action, le cui attività italiane coordinai per un paio d'anni da Senatore, il suo coinvolgimento politico strutturale fu meno scontato, per evidenti motivi di tradizioni politiche famigliari.

Il JAP consisteva nel reclutare giovani giuristi che sarebbero stati affiancati alle delegazioni di quei paesi che alle Nazioni unite, e successivamente alla Conferenza diplomatica, non avevano le risorse umane e finanziarie per partecipare pienamente a tutti i negoziati. I primi paesi con cui fu trovato un accordo furono la Bosnia Herzegovina, il Senegal e Trinidad e Tobago. Tre scelte strategiche e simboliche: la Bosnia era vittima di un genocidio; il Senegal la stella della democrazia africana, un continente ancora in guerra con se stesso; Trinidad e Tobago il paese da cui tutto era partito.

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All'inaugurazione dell'Assemblea generale del 1988, il Presidente del mini arcipelago caraibico di Trinidad e Tobago aveva lanciato una disperato appello affinché la comunità internazionale si dotasse di un tribunale soprannazionale per assicurare alla giustizia i trafficanti di droga che ormai facevano il bello e il cattivo tempo in tutti i Caraibi usando i porti dei paesi del CARICOM, così si chiama gruppo dei 15 paesi caraibici, per far arrivare la cocaina colombiana negli USA e in Europa. Nel 1988 sarebbe stata adottata la terza Convenzione ONU in materia di droghe, la più proibizionista delle tre, mentre nessuno riprese più l'idea di ritenere il narco-traffico un crimine di importanza tale da dover esser giudicato anche da una corte internazionale.

La proposta di una giurisdizione super partes rimase però valida e, una volta che il Consiglio di Sicurezza creò i due tribunali ad hoc, l'assemblea generale delle dette mandato alla Commissione di diritto internazionale di Ginevra di preparare una bozza di statuto per una corte che corrispondesse all'obiettivo storico delle Nazioni unite di dotarsi anche di una sorta di "potere giudiziario" a complemento degli altri organi dell'ONU. Occorre "solo" che qualcuno ne divenisse il campione tra i governi e tra le organizzazioni non governative.

Fin dall'inizio degli anni Novanta il Partito Radicale aveva mobilizzato migliaia di parlamentari e centinaia di governanti e intellettuali perché venissero assicurati a una giustizia super partes, e non dei vincitori, i responsabili dei crimini commessi nei Balcani e nella regione dei Grandi Laghi. Conquistati quei due obiettivi era naturale che venissero investite risorse umane e finanziarie perché venisse finalmente istituita una Corte penale internazionale permanente. La campagna che proclamava che "non ci può esser una pace duratura senza una giustizia giusta" fu strutturata in associazione, segretario fu eletto Marino Busdachin, tesoriere Antonio Stango, presidente onorario Ralph Dahrendorf - era la fine del 1993. Non c'è Pace senza Giustizia, che in inglese fu abbreviato in No Peace Without Justice, iniziò le proprie attività con appelli rivolti a parlamentari e esponenti di governo ma anche esperti legali e militanti dei diritti umani, oltre naturalmente i cittadini sensibili a questo tipo di questioni, con un bilancio di pochi milioni di lire italiane. Col passare degli anni furono preparati progetti per ricercare finanziamenti sia dalla Commissione europea, in ECU, e dall'Open Society Institute di George Soros, in dollari. Nel 1997, per consentire un consistente finanziamento dell'OSI No Peace Without Justice fu incorporata nel District of Columbia e nello Stato di New York come organizzazione tax exempt.

Furono pubblicati libri in collaborazione con l'International Law Association de la DePaul School of Law di Chiacago, inviate newsletter a parlamentari di tutto il mondo, una presenza era garantita durante i negoziati al Palazzo di Vetro e ipotizzate una serie di conferenze in giro per il mondo per accompagnare la definizione dei crimini, e creare le condizioni politiche generali perché l'Assemblea generale fissasse una data per adottare formalmente lo Statuto della Corte. Nel 1995, il Partito Radicale, Non c'è Pace senza Giustizia, Il Movimento federalista mondiale (WFM), Amnesty International, Human Rights Watch, the Lawyers Committee for Human Rights e Parliamentarians for Global Action (PGA), assieme a Ben Ferencz, giovanissimo procuratore al Tribunale di Norimberga, fondarono la NGO Coalition for the International Criminal Court, CICC, una coalizione di organizzazioni non-governative che si sarebbe battuta per l'istituzione di una Corte penale internazionale che fosse giusta, equa e indipendente. Bill Pace, decano delle ONG e rappresentante all'ONU del WFM fu eletto Convenor, convocatore, lo sarebbe rimasto per 20 anni.

Le varie ONG avevano competenze e modi di operare radicalmente differenti al limite dell'incompatibilità ma, fino all'ultimo, si riusci a metter da parte le rivalità, che comunque esistevano, creando preziose sinergie per raggiungere l'obiettivo comune dell'istituzione della Corte. La Coalizione si incontrava ogni qualvolta fosse necessario al Church Center su First Avenue, proprio davanti all'entrata delle Nazioni Unite di New York. Il Partito Radicale e Non c'è Pace senza Giustizia erano le uniche organizzazioni non rappresentate da cittadini degli Stati Uniti. Eravamo tutti italiani. Le riunioni consistevano in un aggiornamento reciproco relativo alle varie attività, alle analisi e punti di vista politici generali e inerenti alla bozza di statuto nonché ai contatti coi vari paesi coinvolgi nel processo negoziale. Durante le riunioni dei comitati e commissioni preparatorie, PrepCom, le riunioni avevano cadenza quotidiana altrimenti bimensile. Ogni gruppo aveva un paese con cui collaborava maggiormente, ai Radicali, chiaramente, toccò l'Italia.

Tra i dieci punti del contratto elettorale tra la Lista Pannella-Riformatori e Forza Italia della primavera del 1994, c'era anche l'impegno a che l'Italia, qualora Berlusconi fosse diventato Presidente del Consiglio, si sarebbe offerta di ospitare la Conferenza internazionale per adottare lo statuto della Corte penale internazionale. Berlusconi vinse le elezioni politiche del marzo '94 e mantenne la parola delegando l'onorevole Emma Bonino a rappresentare l'Italia alla Sesta Commissione - affari legali - dell'Assemblea generale dell'ONU che però non accolse subito l'offerta.

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Il Judicial Assistance Programme ricevette finanziamenti tanto dalla Commissione Europea quanto dall'Open Society Institute. Grazie ai contatti più disparati furono selezionati alcuni giovani neo laureati o dottorandi in diritto internazionale, e anche qualche professore, con particolare competenze o interessi nel diritto penale. Nella selezione cercavamo sempre di non riempire di italiani le delegazioni. Una volta assegnati, seconded, a una missione permanente presso le Nazioni unite, i giuristi avrebbero agito secondo le istruzioni dell'Ambasciatore e del capo delegazione del paese con cui collaboravano. Non c'è Pace forniva tutto il materiale necessario e copriva i costi della logistica ma poi incontrava i delegati solo in occasioni conviviali - almeno questa era la versione ufficiale. Era chiaro che i vari giuristi erano una fonte ineguagliabile di informazioni sui negoziati e sulle chiacchiere dei corridoi e riunioni informali tipiche del Palazzo di Vetro.

Se ai PrepCom i JAP si contavano sulle dita delle mani, alla Conferenza di Roma Non c'è Pace Senza giustizia arrivò ad accreditare una settantina di persone,  una delegazione seconda solo a quella delle Nazioni Unite stesse! Certo il fatto che fossimo a Roma aiutava, ma anche dopo la Conferenza diplomatica Non c'è Pace e il Partito Radicale erano sempre massicciamente presenti al Palazzo di Vetro. Bosnia, Trinidad e Senegal furono le prime delegazioni ad avere il JAP, seguirono Burundi, i due Congo, Sierra Leone, Dominica. La FAO era invasa da giovani militanti del diritto internazionale grazie ai Radicali.

Ma c'era anche un'altra Radicale alla FAO, e con incarichi e possibilità d'azione ben superiori del Judicial Assistance Programma, Emma Bonino. Sempre a seguito del contratto tra Pannella e Berlusconi del 1994, la Bonino era stata nominata alla Commissione europea assieme al Professor Mario Monti dal governo di centro-destra. La Bonino, che aveva mantenuto tutte le aspettative della vigilia consolidando una reputazione di militante anche all'interno delle istituzioni, riuscì a farsi nominare rappresentante della Commissione europea ai negoziati. Una mossa irrituale per Delors visto che la Commissaria italiana era competente per gli aiuti umanitari, gli affari dei consumatori e la pesca. Pur non mancando un giorno ai suoi compiti di Bruxelles, Emma Bonino era sempre presente durante le fasi più delicate dei negoziati dove si trovò ad agire in perfetta concordia col ministro degli esteri del Canada, Lloyd Axworthy, con quale si era duramente scontrata per questioni di pesca qualche tempo prima.

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Le giornate alla Conferenza diplomatica iniziavano all'alba. Con Marco Cappato partecipavamo llo staff meeting dei JAP alle 730 per poi spostarci a quello delle 8 della Coalizione, per poi seguire, là dove possibile, i negoziati dalle 9 fino a notte fonda. Alle volte ci infilavamo anche in quelli della Commissione europea. Nelle pause pranzo e cena le riunioni si spostavano al Partito Radicale dove il clima era piuttosto perché Pannella era stato ricoverato per un problema al cuore. Tra una riunione e due chiacchiere con questo e quello si incastravano le mie corrispondenze telefoniche per Radio Radicale. Nei pomeriggi, con Rino Spampanato, si preparava l'edizione telematica di Notizie Radicali che era pressoché dedicata ai retroscena della Conferenza. Non di rado alcune "spifferate" venivano pubblicate dalla stampa tradizionale che ben si guardava dal citare la fonte. La mancanza di un telefonino mi fece diventare pratico degli uffici della FAO e di come poter scroccare telefonate dalle postazione dei fissi o dai tavoli del portieri dell'edificio o dal bar del primo piano dove i caffè costavano 500 lire e i cappuccini 700. La mancanza di telefonino rendeva le conversazioni più impegnate e impegnative. C'era più tempo per parlare, per ascoltare e per prendere appunti mentali per le corrispondenze.

Non tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite erano riusciti a mandare una delegazione a Roma, alcuni gruppi, come i caraibici o le isole del Pacifico si facevano apprestare da altri. Solo la Somalia e la Federazione jugoslava non poterono mandar nessuno perché sospese dall'ONU. La Somalia perché senza governo e perché teatro di morte per i militari USA e decine di caschi blu all'inizio degli anni Novanta, la Federazione jugoslava perché vantava lo status della Repubblica Federale Socialista di Jugoslava non avendo ma riconosciuto la secessione della Slovenia, Croazia, Bosnia Herzegovina e Macedonia. Una questione complicatissima di diritto internazionale tenne fuori Milosevic e i suoi dai negoziati. Chiaramente diplomatici serbi erano presenti, ma non potevano far altro che assistere in silenzio e distribuire documenti attraverso i loro alleati storici, i russi. I documenti dei serbi ponevano problemi di legittimità dell'esercizio perché avevano come vero obiettivo i procedimenti di fronte al Tribunale ad hoc per i crimini commessi nella ex-Jugoslavia che per loro non era ex e, soprattutto, perché si trattava di legittime operazioni contro delle guerre di secessione.

Se i fronti sloveno croato e bosniaco appartenevano alla storia della ex Jugoslava, e se alcuni dei protagonisti degli attacchi alle centinaia di migliaia di civili iniziavano a esser condannati dal Tribunale dell'Aia, come Tadic, nell'estate del 1998 tanto la polizia serba quanto l'esercito jugoslavo erano particolarmente attivi nella provincia meridionale del Kosovo. Nelle parole del Presidente Milosevic si tratta di una campagna anti-terrorista che voleva disarmare i violenti separatisti di origine albanese che vivevano in quella parte dei Balcani.

Nei giorni in cui i diplomatici serbi, accreditati presso Roma e la Santa Sede, distribuivano dispacci provenienti da Belgrado, sulle montagne kosovare decine di villaggi venivano cannoneggiati dall'esercito jugoslavo mettendo in fuga vecchi, donne e bambini. Gli uomini si erano organizzati in gruppi armati che si erano dati il nome di Esercito per la liberazione del Kosovo, UCK, in albanese, Kosovo Liberation Army, KLA, in inglese e dalle montagne più alte organizzavano la resistenza. Quelli che per Milosevic erano terroristi, per i kosovari erano dei partigiani. Belgrado riteneva di poter avere la mano libera contro i ribelli, i partigiani invocavano il diritto umanitario internazionale perché ritenevano di aver ingaggiato l'armata jugoslava in un conflitto armato interno. Nel primo caso sarebbe stata una questione di giurisdizione domestica, nel secondo di giurisdizione internazionale. E il Tribunale dell'Aia non aveva una scadenza temporale per la propria competenza territoriale quindi poteva incriminare chi violasse le leggi della guerra.

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