Thursday, July 24, 2014

Persona Non Grata


(auto)Presentazione


"Segui il tuo corso
e lascia dir le genti"
Inferno, Dante Alighieri



Nell'estate del 2014, a 14 anni di distanza dai fatti, in Operazione Idigov, ho raccontato come il Partito Radicale sconfisse la Federazione Russa alle Nazioni Unite e seguito di due interventi pronunciati dal parlamentare ceceno Akhyad Idigov davanti alla 56esima sessione della Commissione diritti umani di Ginevra a nome del PR. Nel giro di poche settimane, mi sono arrivate decine di messaggi di ringraziamento per aver raccontato un semestre di iniziative Radicali in giro per il mondo. Si trattava di commenti di Radicali noti che ricordavano i fatti, ma soprattuto si trattava di entusiasmo, addirittura c'è si disse orgoglioso, di Radicali ignoti, persone che in silenzio da anni sostengono col loro tempo e soldi le attività della cosiddetta "galassia radicale". Sicuramente ci saranno stati anche commenti negativi ma, per il momento, non mi son stati comunicati.

Operazione Idigov si conclude con la pubblicazione di una lettera delle Nazioni Unite dell'aprile 2002 che riportava le minacce dell'ambasciatore vietnamita che annunciava la richiesta di sanzioni se il Partito Radicale non avesse desistito dall'organizzare un incontro sulla situazione dei popoli indigeni che vivono sugli altopiani centrali del Vietnam alla presenza di Kok Ksor, il leader storico delle comunità di Montagnard cacciati dalle loro terre ancestrali e figura legata alla presenza delle truppe americane in Indocina. Il Partito Radicale ritenne di non rispondere positivamente a quella richiesta e organizzo il briefing con Kok Ksor, gli dette la parola e raddoppiò la propria attenzione sul Vietnam facendo parlare anche Vo Van Ai, portavoce mondiale della Chiesa buddista unificata messa fuori legge dal regime comunista di Hanoi.

Come nel 2000, il Partito Radicale si trovò di fronte a una richiesta di sanzioni che lo impegnò per due anni nel tentativo, riuscito, di difendere la propria affiliazione ufficiale con il Consiglio economico e sociale della Nazioni Unite. A differenza di Operazione Idigov, questo libro non ricostruisce tutto quanto fu fatto in quei due anni per salvare il Partito dall'attacco dei vietnamiti; la vicenda emerge per sommi capi con i documenti che furono prodotti per 24 mesi e si innesta nel ricordo di decine di attività a cui ho avuto l'onore e l'onere di partecipare e, spesso, di inventare di sana pianta. Il bello del Partito Radicale è che se hai un'idea che è in linea con gli obiettivi storici o congressuali o con la nonviolenza politica e liberale, e trovi il modo di farla finanziare, la puoi portare avanti. Spesso con successo.

Chi segue il Partito Radicale sa che ha giocato un ruolo centrale per la creazione dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e il Ruanda, per l'istituzione della Corte penale internazionale, per l'incriminazione di Slobodan Milosevic, per la proclamazione di una Moratoria Universale della pena di morte e la messa al bando delle Mutilazioni Genitali Femminili da parte delle Nazioni Unite. Ma non necessariamente sa come e quando ci si è arrivati, non conosce i nomi delle decine di persone che ci hanno dedicato anni di militanza politica, non ha mai sentito rammentare le centinaia di compagni di strada coinvolti in mezzo mondo. Difficilmente contestualizza perché, giustamente, nella vita ha altro da fare né è al corrente che nel 2005 l'Iran e nel 2013 la Cina tentarono di incastrare il Partito Radicale per aver fatto parlare un esponente della minoranza araba degli Ahwazi alla Commissione diritti umani o aver sonorizzato un evento durante la sessione primaverile del Consiglio ONU sui diritti umani assieme a Uiguri, Tibetani, Mongli, Taiwanesi, Falungong e dissidenti cinesi di varia proveniente e ideali.


Mi sono iscritto al Partito Radicale sulla scia della seconda campagna "o lo scegli o lo sciogli" quella dei primi anni Novanta, nei mesi in cui Radio Radicale parlava delle attività rivolte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU perché si arrivasse quanto prima alla creazione dei Tribunali internazionali e della nascita della "lista Marco Pannella per il Partito Democratico". Avevo votato Radicale ma non avevo mai messo mano al portafoglio per sostenerne le attività. Nel 1993 lo feci con 365.000 lire. Nell'inviare copia del mio bollettino postale inclusi anche questa lettera a Emma Bonino:

testo lettera
 
Appunto, il bello del Partito Radicale è che se hai un'idea in linea con gli obiettivi storici o congressuali, e sei capaci di aiutare a trovare il modo di farla finanziare - e parli qualche lingua - la puoi portare avanti. Il brutto del Partito Radicale è che se ci riesci poi ti assorbe la vita.

Queste mie memorie son frutto di quell'assorbimento e voglion esser un aiuto a ricordare e uno stimolo a conoscere un po' di più la storia dell'unico Partito che parla alle Nazioni Unite e dei contribuiti che è riuscito a dare in momenti chiave delle attività delle Nazioni Unite per il progresso umano e civile dell'umanità.


Capitolo 1

Operazione Kok Ksor?


"Beato te che viaggi sempre"
anonimo italiano



Ginevra, 16 aprile 2002 (ore 10.30)
A: Marco Perduca
Da: Segreteriato Commissione diritti umani
Oggetto: richiesta avvio procedura contro Prt da parte del Vietnam
Signor Perduca,

Voglia trovare qui sotto la lettera del Rappresentante permanente della Repubblica socialista del Vietnam presso le Nazioni Unite di Ginevra indirizzata al Presidente della 58esima sessione del-la Commissione diritti umani.
“Presidente, vorrei portare alla Sua attenzione la presenza illegale, alla sessione della Commissione in corso, di un gruppo terrorista che ha sempre ammesso di esser stato reclutato dalla CIA e dall’esercito degli Stati Uniti per combattere contro il regime del Vietnam. Il nome dell’organizzazione è Montagnard Foundation, Inc., rappresentata dal signor Kok Ksor.
La partecipazione di questo gruppo terroristico alle riunioni del- la Commissione di Ginevra, grazie al Partito Radicale Transnazionale, è una chiara violazione della risoluzione 1996/31 del Consiglio economico e sociale e motivo di cagione per i lavori della Commissione stessa. Si tratta di un cattivo uso delle opportunità offerte alle ONG dalla Commissione da parte di un gruppo che non è qualificato a prender parte ai lavori di quell’organo delle Nazioni Unite. Tale censura è stata chiaramente affermata dal Like-Minded Group, l’Asian Group e alcune delegazioni durante la discussione del terzo punto dell’agenda dei lavori di questi giorni.
Le chiedo, in qualità di presidente della Commissione, di prendere tutte le misure necessarie per prevenire la partecipazione del summenzionato gruppo a tutte le riunioni della Commissione e di far cancellare immediatamente l’incontro convocato dal Prt e previsto per il 15 aprile 2002 nella sala XXII dalle 13.00 alle 15.00. Le chiedo inoltre che questa mia lettera venga allegata ai documenti ufficiali della 58esima sessione della Commissione diritti umani.
Distinti saluti,
Amb. Nguyen Quy Bing


Persona non grata



"Senator, your car is here". Un fuoristrada nero dai vetri oscurati ci aspettava col motore acceso sotto il colonnato dell'Hotel Royalton di Pnom Penh. Accanto al corpulento autista-guardia del corpo sedeva pacifico come sempre Son Chhay. In un francese approssimativo ma cordiale intratteneva Marco Pannella con indosso una mantella di loden malgrado i 30 gradi. La strada per l'aeroporto Sianouk è la principale arteria di trasporto da e per la capitale cambogiana, ci passano prodotti di ogni tipo che migliaia di cambogiani tessono, tagliano, cuciono o incollano per misteriose multinazionali cinesi, taiwanesi e sud-coreane. Rispetto al 2003, quando con Pannella, Marco Cappato e una delegazione del Partito Radicale avevamo passato due settimane in Cambogia per le elezioni, le fabbriche erano quadruplicate e con loro il traffico e quindi il rumore.

Il desk della Vietnam Airlines del volo per Saigon - Ho Chi Min City - era letteralmente deserto. C'era solo il personale dell'accoglienza e un funzionario della compagnia. Presento i nostri passaporti di servizio e resto in attesa del rituale "corridoio o finestrino", una domanda che in alcune parti del mondo ancora ha un che di ossequioso cerimoniale e attenzione al viaggiatore. Mi viene chiesto di aspettare. Nell'attesa, con Pannella facciamo il punto dei quattro giorni passati in Cambogia tra riunioni con la comunità dei Khmer Krom, quelle coi parlamentari del Sam Rainsy Party, tutti e 25 iscritti al Partito Radicale, le visite al centro di accoglienza dei rifugiati Montagnard, una mia visita a un centro di tossicodipendenti e le condizioni generali di un paese che ci pare incredibilmente e, volgarmente, cambiato dalla visita di cinque anni prima. E' il 23 dicembre 2008 e, alla vigilia di Natale, ci attende ad Hanoi il presidente della Commissione esteri dell'Assemblea nazionale vietnamita.

Dopo un'abbondante mezzora d'attesa, parlare con Pannella fa perdere la cognizione del tempo, si presenta il capo scalo della Vietnam Airlines che ci interroga marzialmente chiedendo conferma se fossimo realmente Mr Panela e Mr. Peduca. Confermo in modo altrettanto marziale pronunciando correttamente i nostri nomi. Senza batter ciglio il tipo ci mostra un fax di una sedicente agenzia di viaggi vietnamita che ci informa che non ci è consentito l'imbarco per il Vietnam per motivi di sicurezza. Sicurezza nostra, dice.

Il fax, scritto in un inglese al limite della comprensione, denuncia che i due parlamentari italiani sono degli elementi notoriamente "contro-rivoluzionari" e che per questo motivo il Ministero degli interni declina quindi ogni responsabilità relativa alla nostra incolumità fisica. Per il bene nostro, e la tranquillità loro, ci dichiara quindi entrambi persona non grata.

Il capo scalo della compagnia di bandiera vietnamita non sente, o capisce, ragioni e a poco vale mostrargli il visto rilasciato dall'ambasciata di Hanoi a Roma. Chiude il volo e ci lascia con un minaccioso "good bye". A nulla valgono le richieste di parlare con un suo superiore, con l'Ambasciata italiana ad Hanoi o con un responsabile di questa famigerata agenzia di viaggi che ci aveva cancellato il posto sul volo per Ho Chi Min City - "Gate closed".

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Il viaggio in Vietnam alla vigilia del Natale 2008 era stato suggerito da Vo Van Ai e Penelope Faulkner, rappresentanti in Europa della Chiesa Buddista Unificata del Vietnam. L'obiettivo era farci andare a visitare il Venerabile Thích Quảng Độ nella sua pagoda di Saigon - nella diaspora vietnamita anticomunista così deve esser chiamata Ho Chi Min City.

Il venerabile Thích Quảng Độ è uno dei massimi leader spirituali, e politici, della vecchia resistenza nonviolenta vietnamita ai comunisti del nord e ai materialisti del sud. Faccia mite e serena, saggezza orientale e approccio sinceramente liberale, il leader religioso vive a Saigon da sorvegliato speciale da ormai 40 anni. Una volta atterrati a Saigon, da veri turisti-fai-da-te, avremmo dovuto prendere un taxi per un ristorante in una zona della città indicataci, saremmo scesi e, a piedi, ci saremmo avvicinati candidamente alla pagoda dove, con una qualche scusa da sprovveduti saremmo entrati nell'edificio per incontrare lo storico leader della chiesa buddista fuorilegge che non si era mai piegato al regime comunista e che aspettavi noi "contro-rivoluzionari".

Fin dai primi anni Sessanta Thích Quảng Độ si era affermato come uno dei dirigenti della Chiesa buddista unificata del Vietnam. Alle attività religiose il monaco aveva, ha, sempre associato una piattaforma politica nonviolenta per la liberazione del proprio popolo dalle oppressioni autoritarie. Nel 1975, dopo che i comunisti presero il potere in Vietnam, Thich Quảng Độ si mise a capo del movimento contro la violazione della libertà religiosa e la confisca delle proprietà della sua Chiesa perpetrate dal governo di Hanoi. Dopo un paio d'anni di attività fu arrestato per la prima volta. In carcere, il venerabile assieme ad altri quattro monaci, fu torturato perché confessasse di essere membri dei servizi segreti USA. Nessuno dei quattro cedette. Dopo un anno di processo farsa Thich Quảng Độ venne assolto e rilasciato. Negli anni Ottanta, la guerra del Vietnam contro la Chiesa buddista unificata si fece più sofisticata e le fu opposta una “Chiesa buddista del Vietnam” ufficiale per annientare quella storica e mostrare al mondo che la libertà religiosa era garantita malgrado l'ateismo di stato.

La Chiesa buddista unificata venne quindi dichiarata definitivamente contro la legge e la sua leadership venne arrestata in massa il 25 febbraio 1982. Naturalmente Thích Quảng Độ e Thích Huyen Quang, i due capi della “recalcitrante opposizione”, come vennero definiti furono i primi a perdere la propria libertà. Dopo un decennio al confino, Thích Quảng Độ decise di ritornare a Saigon. Come era solito fare, nell'agosto del 1994 redasse l'ennesima denuncia delle persecuzioni subite dalla Chiesa buddista unificata: la mera redazione del documento, inviato al Segretario generale del partito comunista, Do Muoi, gli costò l'arresto all'inizio del 1995. Fu condannato ad altri cinque anni di carcere.

Per il resto della sua vita Thích Quảng Độ non ha mai goduto di piena libertà, arresti e interrogatori hanno scandito, e continuano a scandire, le sue giornate. Nonostante tutto ciò il venerabile ha continuato a denunciare le violazioni dei diritti umani subite direttamente e dal suo popolo. Per queste sue attività politiche nel 2000 un gruppo di 200 parlamentari di Stati Uniti, Canada, Australia, Francia e Belgio lo candidò a Premio Nobel per la Pace. L'anno successivo fu di nuovo obbligato agli arresti domiciliari perché aveva dichiarato l'intenzione di accompagnare a Saigon l'ottantaduenne patriarca Thích Huyen facendolo "evadere" dagli arresti domiciliari dove era costretto da 19 anni. La polizia non gli fece neanche iniziare il viaggio e lo confinò nella sua pagoda. Nel 2008 gli fu concesso eccezionalmente un breve permesso per recarsi al capezzale del confratello Thích Huyền Quang, e assistere alla sua morte nel monastero dov'era anch'egli costretto ai arresti domiciliari. Per corrispondere alle lotte di un compagno militante nonviolento come il venerabile Thích Quảng Độ valeva la pena di rischiare la nostra libertà e i rapporti da poco ricercati con Hanoi dopo anni di conflitti.

Negli ultimi anni i parlamentari radicali, tanto a Roma che a Bruxelles, avevano sottoscritto la candidatura del venerabile a Nobel per la Pace alternandola a quella della leader degli uiguri Rebya Kadeer. Offerti i nostri omaggi alla personalità che avevamo segnalato assieme a centinaia di intellettuali e legislatori di mezzo mondo al Comitato di Oslo per le sue attività a favore della pace in Indocina, saremmo tornati in aeroporto per proseguire verso Hanoi non prima d'aver fatto documentare fotograficamente il tutto a un bonzo complice con l'accordo della pubblicazione in differita su Facebook. Nella capitale il 24 dicembre ci aspettava il presidente della Commissione esteri dell'Assemblea Nazionale. Il piano naturalmente teneva di conto un'eventuale operazione di polizia contro di noi, l'arresto, come era accaduto nel 2005 in Laos a Olivier Dupuis, Bruno Mellano, Massimo Lensi e Silvja Mazi, o l'espulsione seduta stante. Non pensavamo al prëemptive strike della persona non grata. Son Chhay tornò a prenderci e ci aiutò a organizzare una conferenza stampa al volo. Il giorno dopo la vicenda era in prima pagina in tutta la stampa cambogiana in inglese, francese e Khmer oltre che una notizia per le radio di mezza Asia. Anche il TG5 fece un servizio.

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Per non svelare fino all'ultimo momento il vero obiettivo della nostra missione in Vietnam avevamo organizzato una serie di incontri in Cambogia. Un paio di riunioni con i parlamentari del Sam Rainsy Party, il maggior partito, anzi l'unico, di opposizione democratica al regime di Hun Sen, da anni iscritti al Partito Radicale e sistematicamente intimiditi dalle istituzioni e raramente messi in grado di poter lavorare. Un'assemblea pubblica con duecento esponenti della comunità dei Khmer Krom, un gruppo che vive nel delta del Mekong ma che, dopo la seconda guerra indocinese, viene sistematicamente escluso dalla vita civile, politica ed economica del Vietnam e umiliato nelle tradizioni culturali e religiose tanto da aver obbligato migliaia di persone alla fuga verso la Francia, gli USA o l'Australia oppure al "passaggio illegale" in Cambogia previo cambiamento di nome per cancellare qualsiasi traccia d'identità onomastica. Infine, una visita all'Ufficio ONU per i rifugiati che gestisce una struttura che ospita alcuni Montagnard, i popoli indigeni degli altopiani vietnamiti che da 30 anni cercano riparo e protezione in Cambogia per sfuggire alle persecuzioni del Vietnam e che il nostro iscritto Kok Ksor, Montagnard anche lui, ci aveva invitato ad andare a trovare perché preoccupato di un loro rimpatrio forzato più volte minacciato.

Kok Ksor ci aveva visto bene, il funzionario delle Nazioni Unite ci spiegò, per filo e per segno e con ampia ricchezza di dettagli burocratici, come non potesse farci visitare il centro perché non era lui l'autorità competente - certe decisioni erano nelle mani del Ministero degli Interni cambogiano e, sicuramente, con così poco preavviso, non sarebbe stato possibile incontrare gli ospiti Montagnard. Insistere servi solo a metter alla prova le reciproche qualità diplomatiche. Una scena simile ci si era presentata nel 2003 quando, con una delegazione più ampia, e per un paio di settimane, con Pannella, Marco Cappato, David Carretta, Martin Schulthes e altri ci eravamo trasferiti a Phnom Penh per seguire le elezioni parlamentari a sostegno di Sam Rainsy e del suo partito. All'epoca il rappresentante dell'ONU era un serbo e come screensaver aveva la faccia di Milosevic con qualcosa scritto sotto. Ci conosceva e non gli garbavamo, ma di fronte a degli eurodeputati non poté far altro che aprire le porte della casa dove venivano ospitati una quarantina di montagnard. Nessuno degli indigeni scappati dal Vietnam parlava altra lingua che non fosse la loro e un po' di vietnamita. Grazie a Son Chhay che capiva e riusciva a esprimersi nella lingua del "nemico", riuscimmo a farci raccontare come stessero, però fino a quando non fu loro chiaro chi fossimo e, soprattuto, che ci mandasse Kok Ksor, i Montagnard sembravano muti. L'ONU li trattava bene, ma il Vietnam non lasciava passar giorno per insistere con le autorità cambogiane che si trattava di malfattori che volevano emigrare illegalmente alla ricerca di un lavoro e che non avevano comunque da temere alcunché una volta rimpatriati.

Quando un paio di giorni dopo manifestammo i nostri dubbi direttamente a Hun Sen in un incontro che durò quasi tre ore, Hun Sen stesso convenne che anche a lui non avrebbe fatto piacere esser consegnato ai Khmer Rouge che lo reclamavano quando scappo in Vietnam durante gli anni della resistenza a Pol Pot. Oltre Hun Sen incontrammo il presidente del senato, che era del Partito del Popolo della Cambogia, il presidente della Camera, del partito realista FUNCINPEC - che ci saluto' in italiano con un "saluti a Pier Ferdinando", nel senso di Casini all'epoca presidente dell'Unione InterParlamentare; tutte le rappresentanze diplomatiche e le agenzie delle Nazioni Unite, la stampa di tutte le lingue, l'International Republican Institute, il National Democratic Institute, Human Rights Watch, Amnesty International e, naturalmente, la Commissione europea. Ci sfuggì il re che era a Pechino per motivi di salute. Dopo giorni di contestazioni, e qualche morto per incidente stradale, il partito di Hun Sen vinse con il più basso risultato mai ottenuto dalla liberazione. Contestazioni simili, ma con percentuali di distacco minori, si verificarono di nuovo nel 2012.

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Phnom Penh è una città a misura d'uomo, disegnata su ispirazione degli studi e del lavoro di Le Corbousier dall'architetto cambogiano Vann Molyvann formatosi a Parigi negli anni Cinquanta. E' segnata da grandi viali, a tutt'oggi intitolati a personaggi e paesi che non esistono più, che separano la parte civile da quella spirituale senza intaccare il sacro fiume Mekong che sgorga dal Tibet.

Una delle mie prime più vivide memorie televisive in bianco e nero riguarda proprio Phnom Penh  e l'arrivo delle truppe vietnamite che la liberarono nel gennaio del 1979. Avevo 11 anni. La capitale della Kampuchea democratica appariva come una bellissima città fantasma. Non era distrutta ma era totalmente deserta. Per le strade non c'erano altro che le truppe vietnamite e ogni tanto qualche "vecchio" in condizioni fisiche che ricordavano gli scheletriti prigionieri dei campi di sterminio nazisti. C'era però qualcosa che non tornava in quelle immagini di liberazione: si trattava di truppe comuniste che andavano a liberare le vittime di un regime comunista. Per poco più di quattro anni Pol Pot aveva infatti affamato e ucciso oltre due milioni di suoi connazionali. Un democidio mai visto prima nella storia dell'umanità. Girare le sere di quel luglio del 2003 in tre su un motodop, un motorino Peugeut usato come taxi, mi fece tornare a mente quelle sensazioni di 24 anni prima con la conferma che purtroppo l'euforia della liberazione da Pol Pot durò molto poco.

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La guerra in Vietnam era, e resta, una ferita ancora aperta nella storia bellica Occidentale - e nelle discussioni dei ragazzini anti-comunisti degli anni '80. Una guerra che, come molte altre, poteva esser evitata ma che, soprattuto, non doveva esser persa contro un nemico che non avrebbe mai fatto gli interessi dei propri cittadini. Diên Biên Phu, Saigon, Pol Pot, Khmer Rouge, Viet Cong erano nomi leggendari, affascinanti quanto il fascino del proibito e del "male". Nomi che rendevano la bandiera rossa meno respingente perché priva della falce e martello e nutrivano il filone storico della lotta di Davide contro Golia, ma che comunque significavano morte e morti.

La guerra in Vietnam è anche molto presente nel repertorio della cultura globale pop grazie a film come Berretti Verdi, Apocalypse Now, Rambo, Platoon, Full Metal Jacket e Good Morning Vietnam!. Di tutti questi, e di decine di altri film, solo il capolavoro di Coppola, perché basato su un testo letterario come Heart of Darkness, include nella narrazione anche gli autori di quegli "unspeakable rites" che accompagnavano i combattimenti e la vita nella foresta di Kurtz-Brando. Quei "riti indicibili", che nel libro di Conrad erano commessi dagli abitanti del Congo belga ridotti in schiavitù dal crudele regime di Leopoldo I, nel Vietnam di Coppola, e reale, erano praticati dai montagnard, o popoli Degar - i popoli indigeni che per secoli avevano abitato indisturbati gli altipiani centrali del Vietnam.

La guerra in Vietnam ancora oggi riecheggia alle Nazioni Unite come l'unica circostanza in cui la superpotenza statunitense ha dovuto piegare il capo. Non di rado in dibattiti all'Assemblea generale, al Comitato della Carta, al Comitato sui diritti umani, quando si voleva dimostrare come anche la prepotenza dello Zio Sam possa esser portata a più miti consigli, si evocavano i successi dei Viet Cong nella seconda metà degli anni Settanta.

Quando quasi venti anni dopo la liberazione vietnamita della spettrale Phnom Penh ebbi modo di conoscere cosa i Radicali avevano detto e fatto in quegli stessi  anni a proposito delle guerre indocinesi, oppure chi frequentassero fin dagli anni Sessanta, cioè intellettuali come Vo Van Ai, capii che in effetti il Partito Radicale era il luogo che faceva per me e che, se anche ci fosse arrivato prima della definitiva affermazione liberista di Pannella, mi ci sarei trovato comunque (già) a mio agio. Quel Natale da persona non grata ai miei "nemici storici" mi rafforzò in certe convinzioni.



Capitolo II

Operazione Kok Ksor



Prima ancora dei pericolosi "elementi contro-rivoluzionari" Pannella e Perduca, per Hanoi il nemico pubblico numero uno, rappresentante della peggiore "reazione: si chiama Kok Ksor. Oggi cittadino statunitense e presidente della Montagnard Foundation incorporata negli Stati Uniti, Kok Ksor è l'erede di Y Bham Enuol, il fondatore del FULRO, il Front Uni de Lutte des Races Opprimées. Dal 2001 Kok Ksor è iscritto al Partito Radicale e per diversi anni lo son stati anche centinaia di Montagnard sparsi nelle Caroline del nord e del sud. Lasciato solo a gestire gli obiettivi del FULRO, Kok Ksor era stato reclutato dai berretti verdi come scout per aiutarli nelle operazioni contro i Viet Cong nella giungla.

Kok Ksor mi era stato presentato nell'aprile del 2000 da Penelope Faulkner mentre ero alla 56esima Commissione diritti umani, l'anno in cui la Russia chiese l'espulsione del Partito Radicale dalle Nazioni Unite. Penelope è la più stretta e fidata collaboratrice di Vo Van Ai, un intellettuale dissidente oggi portavoce mondiale della Chiesa buddista unificata del Vietnam.

Vo Van Ai e Marco Pannella si conoscono dalle marce nonviolente di Parigi degli anni Sessanta quando i giovani monaci buddisti facevano il giro della capitali occidentali durante la prima guerra indocinese per avvertire pacifisti di destra e di sinistra che né il nord comunista né il sud capitalista e autoritario avrebbero rappresentato un futuro migliore per il Vietnam indipendente. La nonviolenza dei bonzi vietnamiti era diversa da quella gandhiana di Pannella, non di rado avvenivano auto-immolazioni di giovani monaci in luoghi pubblici in Europa per richiamare l'attenzione su ciò che accadeva nel loro paese, ma la lettura radicale del contesto era simile, le proposte differenti. Quella dei bonzi era una disperazione simile a quella che oggi caratterizza i loro simili tibetani, i Radicali ritenevano invece che occorresse far conoscer questa "terza via" per scongiurare la guerra con tutto quello che sarebbe seguito - e che in effetti seguì.

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La 58esima sessione della Commissione diritti umani dell'ONU si teneva a una settimana dal 38esimo Congresso del Partito Radicale che simbolicamente era stato convocato quella primavera del 2002 proprio a Ginevra per marcare la caratteristica onusiana. Quel congresso era organizzato a sette anni dall'ultimo e meriterebbe un libro interamente dedicato a quel che successe in quei quattro giorni e nei mesi che lo separarono dalla seconda sessione che si tenne nel novembre dello stesso anno a Tirana - a parte affrontare le complesse problematiche di ritorno alla legalità statutaria del Partito Radicale, fu quel congresso vide una straordinaria partecipazione di ospiti e iscritti transnazionali.

Tra i quasi mille registrati al Congresso radicale c'erano sicuramente anche "spie", "agenti provocatori" e altrettanto sicuramente "emissari" di quei paesi che nel 2000, alleati della Federazione russa, erano stati sonoramente sconfitti quando l'ECOSOC aveva rigettato la richiesta di Mosca di espellere il Partito dalle Nazioni Unite. Molto probabilmente la mozione finale adottata dal 38esimo Congresso non fece altro che confermare le caratteristiche politiche di un'organizzazione non-governativa dedita agli attacchi politici ad alcuni Stati Membri dell'ONU. Ne era testimone la mozione generale adottata alla fine del Congresso in qui, tra le varie cose, si indicavano come prioritarie le iniziative volte a:

- individuare le modalità di realizzazione, a partire delle esperienze compiute per la situazione in Afghanistan, in Cecenia ed in Italia, un satyagraha lungo un anno, per promuovere un processo politico che faccia dell'instaurazione della democrazia e del regime delle libertà una priorità della comunità internazionale;

- fare delle lotte per la libertà della Cecenia, dell’Uighuristan e del Tibet obiettivo politico prioritario, non solo al fine di tutelare la concreta possibilità di salvezza umana e civile di popoli e individui che sono minacciati da tremende campagne di odio, persecuzione e genocidio, ma anche per riproporre il tema, assolutamente decisivo per gli scenari geopolitici internazionali, della democratizzazione e liberazione civile degli "imperi" russo e cinese;

- promuovere, anche in risposta alla minaccia del terrorismo, un’ "offensiva democratica" per l'ingresso di Israele nell’Unione europea, e per l'instaurazione della democrazia in Tunisia;

rilanciare la campagna per la riforma delle convenzioni internazionali in materia di droga, sulla base degli studi prodotti nell'ultimo decennio dal Cora-Coordinamento Radicale antiproibizionista e dalla Lia, Lega Internazionale Antiproibizionista, collaborando altresì con quanti, nei cosiddetti "paesi produttori", individuano nella legalizzazione delle droghe la condizione essenziale per la rinascita civile ed economica;

- individuare tutte le iniziative opportune affinché vengano precisati al più presto obiettivi concreti sul tema dell’Organizzazione mondiale della democrazia, a partire dalla proposte emerse dal dibattito congressuale, per la "Communities of Democracies", per l’istituzione di una Corte Mondiale dei Diritti Umani o di una Corte Costituzionale Internazionale;

- elaborare le basi di una campagna per l'integrazione dei paesi balcanici e caucasici nell’Unione europea e per l' "esportazione" del sistema democratico nel continente asiatico, valorizzando il contributo non riconosciuto della democrazia indiana e contrastando l'avanzante diffusione del "modello cinese".

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[Kok Ksor aveva partecipato al 38esimo congresso del Partito Radicale e nell'aprile del 2002 avrebbe preso la parola davanti alla Commissione dell'ONU sui diritti umani.

Il presidente della cinquantottesima Commissione Onu dei diritti umani non dette seguito alle richieste dell'Ambasciatore vietnamita contenute in un fax inviato il 16 aprile, si limitò soltanto a informarci del messaggio ricevuto. L'incontro si tenne e l'ex-scuot "collaborazionista" Kok Ksor prese anche la parola in plenaria]

Intervento di Kok Ksor


Non paghi delle dure denunce delle violazioni dei diritti indigeni subite dai Montanard, in quella stessa sessione della Commissione dei diritti umani, fu deciso che anche Vo Van Ai prendesse la parola. Il portavoce nel mondo del venerabile Thích Quảng Độ, oltre a criticare duramente il Vietnam per le persecuzioni subite dalla Chiesa buddista unificata, attaccò le mire espansionistiche cinesi verso il suo ex paese. Il solito Partito Radicale che alle Nazioni unite non perde mai un'occasione per confermare il proprio ruolo di partito al servizio di più cause allo stesso tempo e, spesso, intricate tra loro.
intervento vo van ai http://www.radicalparty.org/it/node/5062752



Marcotraffico


"Oh oh catch that buzz
Love is the drugs I'm thinking of
Oh oh can't you see
Love is the drug for me"
Love is the Drug
Roxy Music


Drugs
Talking Heads

Oggi le droghe sono pericolose perché proibite. Se da questa affermazione togliete "oggi" siete degli antiproibizionisti ideologici, altrimenti lo siete diventanti prammaticamente. Io non ho mai fumato neanche una sigaretta ma mi son sempre posto il problema di quanto potesse esser efficace il verboten - il proibire come politica. Mi convinsi definitivamente della proposta anti-proibizionista negli anni dell'Università, più per amor di polemica che per convinzione ideale, e da allora non son tornato indietro. Per me il pericolo risiede, nasce, dalla proibizione. Che si tratti di coltivare, commerciare o ingerire qualcosa, vendere o concedere il proprio corpo oppure scegliere con chi passare la propria vita o su cosa fare ricerca scientifica, se non si lede l'integrità psicofisica di qualcun altro, è sempre meglio darsi un sistema di regolamentazione legale che pretendere di cancellare il fenomeno su base etica, ideologica, religiosa o morale.

La prima guerra alla droga, anzi guerra per via della droga, risale all'inizio del XX secolo quando in Cina, per un paio d'anni, le potenze coloniali, Regno unito in testa, imposero una serie di embarghi e potenti limitazioni al commercio di oppio che entrava nell'impero celeste dalla Birmania. Tali e tanti erano gli interessi coinvolti, e non tutti strettamente connessi alle fumerie di Pechino e Shangai, in quei traffici che la guerra al popaverus sonniferum divenne presto un vero e proprio conflitto armato internazionale. La guerra dell'oppio si concluse dopo molti morti con l'adozione di un trattato internazionale siglato a l'Aia che sancì la proibizione globale della produzione consumo e commercio dei derivati del papavero. Se le premesse della convenzione anti-oppio volevano essere alte e nobili, gli interessi sottostanti erano di natura squisitamente economica e, come da allora in poi sarebbe successo anche per la cannabis e la foglia di coca, di controllo di interi territori e popoli.

Nel preambolo al trattato del 1912 si legge infatti che i 60 paesi firmatari avevano deciso di adottare quel documento per "il benessere dell'umanità" … Nel giro di un paio d'anni questa alleanza contro il papavero entrava in guerra uccidendo milioni di persone. Probabilmente c'era qualcosa di più pericoloso per il benessere dell'umanità che non una pianta dai fiori rosacei.

Che le droghe siano pericolose in sé è un'affermazione forse apodittica e discutibile in un senso o nell'altro che però siano proibite è un fatto. Nel 1961 - l'anno in cui John Fitzgerald Kenny minacciò di mandare la marina USA a Cuba se i sovietici vi avessero fatto arrivare il missili - gli stati membri delle Nazioni Unite si ritrovavano a New York per adottare la Convenzione unica sulle sostanze narcotiche e psicotrope. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, che in Indocina, terra di papaveri, si stava infiammando sempre più, i nemici ritenevano di dover regolamentare al massimo la produzione il consumo e il commercio di tre piante e dei loro derivati. In modo arbitrario furono scelte le piante, in modo altrettanto arbitrario furon elencati le sostanze che potevan esser con esse prodotte. Fu deciso che una quantità limitatissima potesse esser destinata per fin medico-scientifici ma per il resto tutto verboten, proibito.

Naturalmente non funzionò e, come spesso accade a chi non è liberale - ideologico o programmatico - invece che fermarsi e riflettere sul perché, fu deciso di aggravare le proibizioni adottando una seconda convenzione nel 1971, proporre un "mega-emendamento" a quella del 1961 e, finalmente, accantonare qualsiasi tipo di ragionamento sulle sostanze da proibire soffermandosi prioritariamente e prevalentemente, se non esclusivamente, sull'imperativo di cooperare per perseguire i produttori e i trafficanti di tutte le "droghe" con un terzo documento nel 1988. Pochi, almeno a livello mondiale, si posero il problema del "benessere" di quella umanità che comunque, liberamente o meno, aveva continuato ad assumere le sostanze che dall'inizio degli anni Sessanta erano state messe fuorilegge. A poco valse realizzare che nel 1968 e 1977 i movimenti studentesche avessero negli stupefacenti degli elementi quasi costitutivi della contestazione del sistema  dell'autorità. Ancor meno importò che negli USA e in Europa si stesse propagando il virus dell'HIV/AIDS proprio a causa della condivisione delle siringhe usate per iniettare l'eroina. Reagan, Thatcher, Mitterand, Kohl e Craxi non sentirono ragioni e dedicarono risorse umane e finanziare ingenti nella guerra alla droga.

Nel 1977, da poco entrato in Parlamento, Marco Pannella decise di denunciare questo stato di cose  con un atto di disobbedienza civile. A Roma il Partito Radicale organizzo' una conferenza stampa dove Pannella stesso avrebbe fumato uno "spinello", una delle sue celtique con dentro della marihuana. La disobbedienza civili dei Radicali, che e' un atto politico, implica che le autorità siano informate preventivamente della violazione di una legge. Una legge ingiusta come lo erano quel poco di norme che esistevano all'epoca in Italia ma che comunque imponevano delle sanzioni sproporzionate rispetto all'atto. Fumare marijuana o hascish poteva portare condanne simili a quelle per rapina a mano armata! Pannella fumò qualcosa, che più avanti nel tempo i periti scoprirono non esser stato neanche un vero e proprio spinello, e fu arrestato. Dal carcere coordinò una campagna per la revisione della legislazione in materia di droghe e, grazie a una sostanziale depenalizzazione dell'uso personale delle sostanze leggere proibite dalle convenzioni ONU, migliaia di persone furono rimesse in libertà. Il Governo Craxi, nell'incorporare le norme della Convenzione del 1988 nel nostro sistema legale, nel 1990 propose al Parlamento una legge tra le più punitive del mondo che passò alla storia come legge "Jervolino-Vassalli". Per uno spinello si potevano fare fino a otto anni di carcere.

Piuttosto che riprendere con le disubbidienze civili, il Partito Radicale, che ormai si era transnazionalizzato, lanciò il Coordinamento Radicale Antiproibizionista, CoRA, per aprire un fronte riformatore che puntasse alla depenalizzazione della detenzione e uso personale di tutte le sostanze: marijuana, eroina e cocaina. Comitati locali, pubblicazioni di ogni genere e specie, manifestazioni in tutta Italia, accompagnate dalla creazione di una rete di antiproibizionisti di tutto il mondo, portarono alla decisione di presentare un referendum che, appunto, togliesse del tutto le sanzioni penali per chi fosse stato trovato in possesso di piccole quantità di sostanze proibite. Nell'aprile del 1993, assieme ad altri 12 quesiti che andavano dalla modifica in senso maggioritario della legge elettorale all'abolizione del finanziamento pubblico dei parti, dalla cancellazione dei ministeri del turismo e dell'agricoltura a… - tutti referendum che ottennero percentuali incredibili di consenso - gli italiani furono invitati a votare a favore della depenalizzazione totale dell'uso personale delle sostanze proibite dalla legge "Jervolino-Vassalli". percentuali di vittori. Si trattava, anzi si tratta, della prima e unica volta in cui uno stato membro delle Nazioni Unite modificava una legge in materia di sostanze stupefacenti attraverso una partecipazione popolare a livello nazionale.

Come in tutte le semine Radicali, aperto un fronte si pensa subito a come poterlo arricchire. Se il CoRA godeva in Italia di ampi consensi nell'opinione pubblica italiana, anche perché liste antiproibizioniste avevano raccolto voti sufficienti per far eletti in XXX consigli regionali e al Parlamento europeo, il Partito Radicale decise di replicare un'impresa simile a livello mondiale e nel 1993 fu fondata la Lega Internazionale Antiproibizionista, LIA. Compito della LIA era quello di avviare un lavoro all'interno delle Nazioni Unite per arrivare a una riforma delle tre Convenzioni dell'ONU in materia di "droghe". Fu preparato un documento giuridico che affrontava le parti delle convenzioni del 1961 e del 1971 che avrebbero potuto esser modificate, identificando anche un cammino procedurale possibile - i regolamenti delle Nazioni Unite possono essere incredibilmente bizantini per la gestione dei lavori dell'Organizzazione, ma diventano ostacoli insormontabili quando si tratta di modificare un documento internazionale. Lo studio si concludeva con la raccomandazione di abrogare del tutto la Convenzione del 1988 perché talmente proibizionista da essere immodificabile.

La LIA per un anno circa raccolse i contributi di alcuni tra i più attivi militanti e pensatori antiproibizionisti del mondo e, forse per la prima volta nella attività' del Partito Radicale, vi fu una significativa partecipazione di americani. Tra questi due in particolari il nume tutelare dell'antiproibizionismo made in USA, il professor Arnold Trebach, che nel 1984, in pieno reaganismo aveva fondato la Drug Policy Foundation a Washington DC, e Ethan Nadelmann, l'enfant prodige dell'accademia dell'Ivy League, addottoratosi a Princeton con un tesi critica delle politiche di polizia del mondo che vedeva proprio nella guerra alla droga una potente scusa per comportamenti anti-costituzionali. La LIA, ma anche il CoRA, e forse anche l'unione laica degli antiproibizionisti in Italia, caddero vittime dell'antiberlusconismo.

Nel 1994 infatti, a seguito dell'accordo elettorale tra Forza Italia e la lista Pannella-Riformatori, i cosiddetti anti-proibizionisti di sinistra decisero di tagliare tutti i ponti coi Radicali, fecero espellere l'eurodeputato radicale eletto nelle liste antiproibizioniste Marco Taradash dal gruppo dei Verdi, e, specie quelli che gravitavano intorno a il Manifesto, avviarono la loro campagna di accuse di tradimento. Come sempre accade ai Radicali, questi continuarono a fare quello che avevano sempre fatto, gli altri non sempre. In compenso in molti però fecero carriera altrove. Il 1994 avrebbe dovuto esser anche l'anno dei primi risultati della nuova legge sulle droghe emendata dal referendum dell'anno precedente e, sulla base dell'accordo tra Pannella e Silvio Berlusconi che definiva l'alleanza elettorale, e successivamente anche politica tra Radicali e FI - e che portò Emma Bonno alla Commissione europea -, anche un anno in cui si sarebbe dovuta convocare una conferenza con contributi internazionali per affrontare la questione dei fallimenti dei proibizionismo.

Malgrado il primo Governo Berlusconi ebbe breve vita, la stragrande maggioranza dei punti del contratto furono onorati, ivi compreso l'incontro ufficiale tra il Presidente del Consiglio e il Dalai Lama - un'anteprima assoluta -, salvo, per l'appunto la conferenza sugli stupefacenti. Da notare che il ministro degli esteri di Forza Italia era un dichiarato antiproibizionista libertario, anzi libertarian, come Martino. Al governo Berlusconi successo il governo "tecnico" guidato da Lamberto Dini, e sostenuto da chi aveva perso le elezioni coi famigerati "ribaltonisti" che di molte cose s'interesso tranne che dei applicare le nuove norme,  o re-istituire le vecchie a dir la verità. Nel 1994 il CoRA e il Partito Radicale presentarono anche due leggi di iniziativa popolare che rafforzavano la richiesta di depenalizzazione e chiedevano l'investimento di risorse umane e finanziarie nelle politiche della cosiddetta "riduzione del danno" con particolare attenzione all'epidemia di HIV/AIDS che nei primi anni Novanta aveva toccati dei picchi drammatici anche in Italia. Il parlamento non le iscrisse mai all'ordine del giorno.

Le elezioni del 1996 videro la vittoria di un'amplia coalizione di centro-sinistra, l'Ulivo, guidata da Romano Prodi. Molti di quelli che avevano denunciato il tradimento dei radicali nel 1994 furono eletti e assunsero anche incarichi di governo, come Franco Corleone, già segretario del Partito Radicale (nel ), e non ebbero alcun problema con la nomina che del Senatore Pino Arlacchi a vice-segretario generale delle Nazioni unite e direttore dell'UNDCCP di Vienna, l'ufficio dell'ONU per la prevenzione delle droghe e del crimine.

Nel luglio del 1997, per dar seguito alle sue deliberazioni congressuali, il Partito Radicale aveva lanciato all'ONU di New York una coalizione di organizzazione non-governative per la promozione di una lingua internazionale ausiliaria con l'obiettivo di avvalersi delle proprie prerogative di organizzazione non-governativa di prima categoria e proporre al Consiglio economico e sociale delle Nazioni unite, ECOSOC, e proporre un dibattito sulla necessita' di adottare in via sperimentale una lingua che non fosse di nessuno e quindi di tutti. Mentre mi recavo al Palazzo di Vetro per una riunione incontro Pino Arlacchi che, un po' spaesato, camminava su First Avenue. Gli vado incontro e lo saluto in italiano, mi risponde prendendomi per qualcuno del protocollo delle Nazioni Unite che era venuto ad accoglierlo perché di li a poco sarebbe stato presentato alla stampa nel suo nuovo incarico. Mentre lo accompagnavo all'ufficio accrediti gli spiegai che ero il rappresentante del Partito Radicale all'ONU, cosa di cui ignorava l'esistenza, e gli promisi che presto le nostre strade si sarebbero incontrate, "con piacere" disse. Le ultime parole famose, Arlacchi non sapeva quello l'aspettava.

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Pino Arlacchi è uno di quelli che Leonardo Sciascia avrebbe definito un "professionista dell'antimafia", cioè qualcuno che ha costruito la propria "reputazione", e conseguente "carriera", spiegando per filo e per segno come si dovesse sconfiggere la mafia senza necessariamente affrontare alla radice alcuni degli aspetti strutturali e qualificando del potere economico, e quindi di controllo del territorio e della politica, come per esempio gli immensi profitti dei proventi del narcotraffico. Una delle affermazioni trionfali con cui si presentò quella mattina di luglio del 1997 allo UN press club, fu "se abbiamo sconfitto la mafia in Italia ce la possiamo fare in tutto il mondo". Brutta storia la hybris, ma ancora peggiore è colui che si lascia guidare da un approccio ideologico totalmente impermeabile agli accadimenti circostanti.

Nel sistema delle Nazioni Unite esiste un ufficio interamente dedicato al controllo delle droghe e del crimine, ha sede a Vienna assieme ad altre agenzie, come quella sulle armi chimiche o quella che ha a che fare con l'industrializzazione del globo nella cosiddetta UNOCity - un'orribile costruzione che ricorda il film di 007 degli anni Settanta sulla riva sinistra del Danubio. Una volta l'anno all'ONU di Vienna si tiene la Commissione sulle droghe narcotiche, CND, composta da 54 paesi che si riuniscono per affrontare il da farsi relativo all'applicazione delle tre Convenzioni sulle droghe. La CND dipende dall'ECOSOC, quindi lo status consultivo del Partito Radicale poteva esser utilizzato anche per partecipare ai lavori relativi alle "droghe" e il crimine della Commissione di Vienna.

Poco dopo l'arrivo di Arlacchi alle Nazioni Unite, Marco Cappato mi raggiunse a New York. Nel 1996 l'Assemble generale della Nazioni Unite aveva finalmente accolto l'offerta dell'Italia di ospitare una conferenza diplomatica di plenipotenziari per definire e adottare lo statuto di quella che sarebbe diventata la prima Corte penale internazionale. L'offerta italiana era una delle varie eredità del famigerato contratto elettorale tra Pannella e Berlusconi del 1994. L'associazione radicale Non c'e' Pace senza Giustizia aveva ottenuto un significativo finanziamento dall'Open Society Institute e dall'Unione europea per organizzare una serie di conferenze che aiutassero la soluzione di molti dei problemi ancora sul tavolo relativi ad alcuni aspetti dello statuto - definizione dei crimini contro l'umanità, ruolo e poteri del Consiglio di Sicurezza, ampliamento della giurisdizione al crimine di aggressione, processo in contumacia, bilanciamenti tra sistemi continentali, orientali e di common law, pena capitale per genocidio. L'ufficio di New York doveva essere il punto focale dell'organizzazione di incontri e conferenze nelle Americhe ma, chiaramente, anche là dove fosse necessario.

La conferenza diplomatica si tenne finalmente a Roma per cinque settimane tra giugno e luglio del 1998, per 12 mesi fummo principalmente mobilitati per organizzare eventi a New York, Washington, Atlanta, Roma, Bruxelles ma anche Dakar. Quasi come side project, anzi forse si trattò di un pet project, e sicuramente senza una lira, con Marco Cappato decidemmo che il Partito Radicale non potesse rimanere fuori dal lavoro della Commissione droghe dell'ONU anche perché, sempre per l'estate del 1998, era prevista la tenuta di una sessione speciale dell'Assemblea Generale, UNGASS, interamente dedicata alle sostanze stupefacenti. A 10 anni dall'adozione della terza convenzione, quella interamente dedicata alla cooperazione internazionale per la caccia ai narcotrafficanti, l'ONU sarebbe stato convocato al Palazzo di Vetro per fare il punto della situazione. Pino Arlacchi era il vice-segretario generale delle Nazioni Unite a cui era stato affidato il compito di preparare quella sessione speciale e di far in modo che anche la società civili, le organizzazioni non-governative, potessero "contribuire".

Per motivi logistici la rappresentante del Partito Radicale alle CND di Vienna era Marina Szikora che faceva la spola da Budapest; dall'autunno del 1997 furono convocati diversi comitati di preparazione, PrepCom, per definire l'agenda della sessione speciale e per identificare la priorità delle priorità. dopo un semestre di confronti Arlacchi decise che la priorità dovesse essere la cancellazione di tutte le droghe dalla faccia della terra con un doppio piano quinquennale, lo slogan con cui fu convocata l'UNGASS all'inizio del giugno del 1998 a New York fu "A World Without Drugs, We Can Do It!". Quando Marina ce lo comunicò non ci volevamo credere e invece cominciò un battage di propaganda in grande stile perché il mondo si convincesse della trovata dell'ex esperto di mafia italiana.

Alle Nazioni Unite di New York e di Vienna esisteva un comitato di ONG che si interessava di droghe di dipendenze di vario tipo. Pareva un raduno di superstiti degli Alcolisti Anonimi degli anni Sessanta di mezzo mondo. A parte organizzazioni che avevano un paio di rappresentanti soci fondatori della comunità di ONG, ne facevano parte il Rotary, il Lyons, Scientology e tante associazioni religiose di ogni tipo - qualche anno più tardi, col sostegno spudorato del governo Berlusconi, sarebbe arrivata anche la Comunità di San Patrignano. Su nostro suggerimento anche l'Open Society Institute di George Soros, che aveva da poco ottenuto lo status consultivo decide di entrare. I dibattiti erano pero' da circolo del bridge tra eleganti ed educate signore di una certa eta' che ci guardavano con gli occhi fuori dalle orbite tutte le volte che con Cappato prendevamo la parola per cercare di insinuare il dubbio che ci fosse qualcosa che non andasse con la proibizione e che non prendere le distanze dallo slogan di Arlacchi equivalesse a farci divenire "governativi" perdendo quindi ogni ragione di esser e, soprattutto, di poter "contribuire" al processo di convocazione della sessione speciale. Si capiva chiaramente che eravamo tollerati perché del Partito della Commissaria europea Emma Bonino.

Nel novembre del 1997, mentre si trovava in un ospedale femminile di Kabul per distribuire gli aiuti umanitari che da Bruxelles erano stati mandati per il popolo afgano vittima dell'avanzare impietoso dei Talebani che a vano ricacciato  e confinato la cosiddetta Alleanza nella città santa di Mazar-i-Sharif, Emma Bonino fu arrestata perché aveva portato con sé dei giornalisti che riprendevano la distribuzione di quanto donato. I Talebani non consentivano, né consentono, che si possa parlare alle, o delle, "loro" donne in pubblico - in privato colloqui femminili son invece concessi - ma soprattutto non tollerano la presenza ti troupe televisive che non riprendano le loro conferenze stampa. La TV, ma anche la radio, sono manifestazione del demonio (sul tabù circa la televisione si potrebbe anche concordare, senza però arrivare a invocare la legge del taglioni). Emma Bonino fu arrestata e trattenuta per qualche ora in una non meglio identificata stazione di polizia. Quando i Talebani si resero conto di chi avessero fermato, la rilasciarono senza scuse, accettarono gli aiuti e la invitarono a lasciare il paese. Rientrata in Europa, assieme a Hillary Clinton e un gruppo di personalità femminili tra cui… la Bonino lanciò la campagna "un fiore per le donne di Kabul" che invitava la comunità internazionale a non riconoscere i Talebani come i legittimi rappresentanti dell'Afganistan alle Nazioni unite. A quel novembre 1997 solo Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi avevano relazioni diplomatiche coi "monaci guerrieri". La campagna ebbe una eco mondiale e le Nazioni Unite continuarono ad avere un ambasciatore afgano in giacca e cravatta e non con tunica e turbante nero.

La diplomazia afgana era formata da famiglie aristocratiche che vivevano all'estero e che cercavano, come meglio potevano, di esser presenti ai lavori dell'ONU, mi ricordavano un po' le dinamiche e i modi di fare della Bosnia che avevamo conosciuto agli inizi degli anni 90. Senza ordini chiari dalla capitale, ormai in mano ai Talebani, con l'unica priorità di non perdere il posto all'ONU e di raccogliere quanti più sostegni militari possibili contro gli estremisti. Riassumere la storia, o la complessità socio-culturale dell'Afghanistan in poche righe sarebbe offensivo nei confronti della realtà, per quel che si poteva capire, che poi sperimentai personalmente quando ci andai nel 2005, la società afgana è più frazionata per motivi etnico-tribali che religiosi. Certo i Talebani, che comunque erano pressoché tutti di etnia Pashtun - il gruppo maggioritario che vive da sempre nella parte centro-meridionale dell'Afghanistan -, avevano usato l'aggregatore della sharia per lanciare l'offensiva alle deboli e incapaci istituzioni che erano state messe insieme all'indomani del ritiro delle truppe sovietiche alla fine degli anni Ottanta, ma gli odii, oltre che le faide interne ai Talebani stessi, erano di origine etnica: i Pashtun contro i Tajiki e gli Uzbeki, tutti contro gli Hazara, poi gli Uiguri, gli Iraniani, i Turkmeni gli onnipresenti Pakistani qualche cinese. insomma dopo quasi dieci anni di resistenza contro l'armata rossa, che seguiva un paio di colpi di stato che avevano detronizzato Abdullha all'inizio degli anni Settanta, mezza Asia aveva scelto di confrontarsi in Afghanistan. A complicare ulteriormente le cose, intorno alla fine del 1997 in Afghanistan si era anche spostato dal Sudan Osama bin-Laden.

Finiti i finanziamenti statunitensi ai mujaidin di Ekmattiar l'economia afgana non trovò di meglio che convertirsi sfruttando una delle fonti di finanziamento informale apprese dall'arrivo dell'Occidente in quel paese: l'oppio. L'oppio non è infatti una coltura tradizionale afgana, fu "importato" come fonte di sostegno occulto all'acquisto di armi americani dagli stessa USA durante la resistenza anti-sovietica. Uno schema simile era stato applicato, coi suoi drammatici frutti, nel vicino Iran quando Washington aveva fatto arrivare aiuti militari ed economici al nemico storico Komehinini che stava rischiando di soccombere contro l'altro nemico storico degli USA Saddam Hussein che nel conflitto Iraq-Iran godeva degli aiuti diretti degli americani. Grazie ai proventi del narcotraffico gestito dai Contras in Nicaragua, e con l'attivissima partecipazione di una intricatissima rete di passaggi e connivenze di servizi segreti di mezzo mondo, l'Amministrazione Reagan faceva arrivare misteriosamente nell'Iran sotto embargo USA armi e munizioni di ogni genere. Lo scandalo "Iran-Contras", emerso qualche anno dopo col processo al generale Oliver North, fu un colpo durissimo alla credibilità degli Stati Uniti, malgrado ciò nessuno s'azzardò a denunciare quello che il proibizionismo aveva generato: guadagni immensi da piante e prodotti dall'esiguo valore intrinseco.

Nessuno sa per certo quanto avesse fruttato il commercio di oppio afgano durante la seconda metà degli anni Ottanta, ma negli anni Novanta le Nazioni Unite denunciavano che la totalità dell'oppio prodotto nel mondo, oppio che poi veniva raffinato in eroina, proveniva principalmente dall'Afganistan, seguivano Birmania, Laos e Colombia. I Talebani che controllavano la maggior parte del paese, tra l'altro quella dove le piantagioni di papavero erano maggiormente presenti, tolleravano la coltivazione della pianta, imponevano tasse sulla terra di tipo medievale, e avevano stretto patti con le narco-mafie russe, pakistane e cinesi perché far uscire il prodotto finito, o semilavorato, dall'Afganistan alla volta dei mercati d'Europa o Nord America. Il capo dei Talebani si chiamava, anzi si chiama ancora perché ogni tanto riemerge da una qualche caverna o villa in Pakistan, Mullah Omar. Pino Arlacchi pensò che si dovesse contattarlo per invitarlo a lanciare una jihad contro l'oppio e ricompensarlo con il riconoscimento alle Nazioni Unite. inciampò in Emma Bonino.

Nei giorni in cui Emma Bonino veniva arrestata a Kabul a Vienna si teneva una riunione del PrePcom della Commissione droghe. Per vie traverse eravamo entrati in contatto con due fratelli che dicevano di essere i delegati dell'Afghanistan all'ONU di Vienna e che ci tenevano aggiornati sugli sviluppi nel loro paese e sulle chiacchiere a UNOCity. Fu anche tramite loro che riuscimmo ad ottenere una serie di documenti che in effetti confermavano le voci sul tentativo di Arlacchi di coinvolgere i Talebani nella guerra all'oppio in quel paese. Secondo le convenzioni ONU le droghe erano da trattarsi come i pirati o i terroristi, nessuna pietà, ma da lì a scendere a patti con chi con la violenza stava conquistando un paese strumentalizzando a fini politico-militari il Corano e imponendo un regime liberticida che voleva confinare le donne in casa per tutta la vita ce ne voleva.

Il Partito di Emma Bonino, tollerato dal comitato delle ONG sulle droghe era anche l'unica organizzazione non-governativa che osava prendere la parola in seno alla Commissione droghe di Vienna e, quando lo faceva, non lesinava critiche ai fallimenti del proibizionismo e a chi, contro ogni evidenza e la realtà sul campo nei paesi produttori, si stava accingendo a rilanciare l'eradicazione delle colture manu militari in mezzo mondo. Per mesi con Cappato preparammo interventi scritti e orali, briefing paper e informazioni per altre ONG sui vari punti all'ordine del giorno dei comitati preparatori della sessione speciale che regolarmente si concludevano con la proposta di avviare, almeno, una valutazione dei costi economici e umani del proibizionismo e l'avvio di una riforma che prevedesse la progressiva regolamentazione legale della produzione, consumo e commercio delle piante proibite e dei loro derivati. Portammo alle Nazioni Unite gli argomenti centrali della proposta antiproibizionista radicale in Italia dalla fine degli anni Sessanta. Non era mai stato fatto prima da nessuno.

La Commissione droghe non reagì, solo alcuni diplomatici privatamente manifestavano vicinanza, reagirono invece Pino Arlacchi e la Giunta per il controllo degli stupefacenti, INCB. La giunta è composta da 13 "esperti" di nomina governativa che hanno il compito di controllare come le tre convenzioni vengono applicate a livello nazionale, ogni anni producono un documento in cui fanno il giro del mondo elogiando i "buoni" e criticando, spesso molto duramente, i "cattivi". Quel documento è corredato dalla presentazione del presidente dell'INCB in cui vengono aggiunti ulteriori elementi di lode o biasimo. Senza mai esser nominato direttamente il Partito Radicale apparve come una lobby dedita alla promozione delle droghe attraverso la legalizzazione. Dietro a questa lobby c'era un ricco finanziere, George Soros.

George Soros è storicamente a favore della legalizzazione delle droghe e lo è perché liberale attento alle dinamiche globali e, cosa che dovrebbe esser comunque sempre esser tenuta presente quando ci si candida a governare qualsiasi tipo di fenomeno, al rapporto "costi benefici". Rispetto al nulla prodotto dal proibizionismo ogni dollaro investito per tenerlo in piedi è buttato via. Malgrado questo quelle attività del Partito Radicale furono portate avanti "in economia" - Soros stava comunque finanziando Non c'è Pace senza Giustizia per la campagna volta al successo della Conferenza diplomatica di Roma ed era anche con quei soldi che potevamo tener aperto l'ufficio di New York in quegli anni e sempre da lì arrivavano i nostri compensi mensili.

Alla vigilia della sessione speciale sulle droghe, grazie al lavoro di Ethan Nadelmann e i finanziamenti di Soros, sul New York Times venne pubblicata una lettera aperta di politici e intellettuali di mezzo mondo che chiedeva a Kofi Annan, allora segretario generale delle Nazioni Unite, di includere nel dibattito al Palazzo di Vetro anche altri approcci di politiche in materia di droghe a partire dalla cosiddetta riduzione del danno. Tra i firmatari c'era anche Emma Bonino.

La sessione speciale dell'Assemblea Generale delle Nazioni unite sulle droghe si tenne dal 6 all'8 giugno 1998 a New York. I tre giorni di dibattito si tennero rigorosamente con le porte chiuse alle organizzazioni non-governative fu consentito l'accesso esclusivamente alle sale nel sottosuolo ma non al piano della plenaria il resto delle attività furono organizzate "across the street", come si dice in gergo, al Curch Center l'edificio costruito negli anni Cinquanta dai quaccheri che ancora oggi ospita decine di ONG religiose e non. Solo l'ultimo giorno fu consentito a cinque organizzazioni di prendere la parola nel cosiddetto Comitato d'insieme, Committee of the Whole, dove erano presenti tutte le delegazioni intente a preparare i documenti finali della riunione. Il Comitato delle ONG sulle droghe non oppose alcuna resistenza a questo confinamento, dopotutto non avendo niente di diverso da dire rispetto ai governi perché mai andare a disturbare il lavoro delle delegazioni con fastidiose recriminazione o distribuzione di dossier di taglio diverso dalla propaganda ufficiale? Rosalind Harris, una delle decane del Comitato, e l'unica che sotto sotto concordava con quanto proponeva il Partito Radicale, ci disse poi che Pino Arlacchi fece passare l'ordine di scuderia di escludere le ONG perché temeva che i Radicali avrebbero colto l'occasione della sessione speciale per distribuire marijuana all'ONU com'erano soliti fare in Italia. Sarebbe stata un'iniziativa da mettere in atto, ma in quella estate del 1998 i tempi per le riforme antiproibizioniste in materia di droghe non erano maturi, lo erano invece per la tenuta della Conferenza diplomatica di Roma, uno degli obiettivi storici del Partito Radicale che stava arrivando a compimento dopo anni di mobilitazione.

Dopo aver preparato un corposo contro-documento sulla bozza di risoluzioni che eravamo riusciti a ottenere e averlo distribuito a tutte le delegazioni e la stampa sostenendo la nostra posizione per cui "A World Without Prohibition, We Can Do It" , un mondo senza proibizione è possibile e possiamo farlo, ci limitammo quindi a prendere la parola con Marco Cappato davanti al Comitato d'insieme per denunciare … l'ultimo giorno riuscimmo anche a organizzare, insieme agli amici della Drug Reform Coalition una manifestazione Davanti al Palazzo di Vetro. Come spesso accadeva alle manifestazioni antiproibizioniste in America, e non solo, il numero dei poliziotti superava quello dei manifestanti. Dopo un paio di slogan srotolammo un enorme striscione che diceva "Stop the War on Drugs", basta con la guerra alla droga, a beneficio delle televisioni presenti e fummo invitati a sloggiare. Dopo i Tribunali ad hoc, la Moratoria Universale della pena di morte e la Corte penale internazionale finalmente il Partito Radicale era noto alle Nazioni Unite anche per l'antiproibizionismo.

La sessione speciale dell'Assemblea generale sulle droghe si concluse con una pomposa dichiarazione in cui si riaffermava la necessità di continuare a fare tutto quello che era stato fatto fino ad allora. Piuttosto che cercare di capire il perché le droghe continuassero a esser presenti dappertutto, Arlacchi propose di investire risorse nella riduzione dell'offerta, di corrispondere cioè alle richieste dei paesi in via di sviluppo, quelli che in gergo all'ONU si chiamano neutralmente "Global South" con la promessa di eradicare le colture di foglia di coca e papavero coi soldi dei contribuenti del mondo ricco. Quindi, oltre al rilancio della cooperazione internazionale per cacciare i narcotrafficanti nei Caraibi, nessun problema con le fumigazioni sulle Ande nonché avvio di campagne aggressive per sradicare il papavero da Birmania, Laos e, soprattutto Afgahnistan.

Ora, se Colombia, Bolivia e Perù avevano dei sistemi politici che, pur con le loro imperfezioni e conflitti sociali e armati sopiti o in atto, erano considerabili democrazie, i tre paesi asiatici presentavano problemi dal punto di vista dei partner istituzionali coi quali le campagne di eradicazione avrebbero dovuto esser portate avanti. In Birmania vigeva la legge marziale imposta da una giunta che aveva sovvertito il governo di Daun Aung San Suu Kyi, legalmente eletto nel 1991, tenendo in carcere la leader del movimento per la democrazia; in Laos governava un governo simile anche se senza divise al potere ma che comunque imponeva leggi draconiane su tutto ciò che avesse a che fare con le libertà individuali e lo faceva grazie al sostegno politico ed economico del vicino Vietnam; in Afghanistan non c'era un governo di diritto che avesse il controllo della totalità del territorio, di fatto il 75% del paese era nelle mani dei Talebani e la rimanente parte settentrionale era difesa dalla cosiddetta alleanza del nord.

Nelle Ande fu deciso di imporre il cosiddetto sviluppo alternativo, promuovendo la coltivazione di palme e banani là dove si coltivava la foglia di coca, mentre in Colombia, vista l'estensione dei terreni, oltre alla colture sostitutive si tenne un atteggiamento ambiguo nei confronti di quella parte del Plan Colombia, finanziato interamente dagli USA, che prevedeva le micidiali fumigazioni aree di monti e valli nelle zone cocalere. In Asia invece si legittimarono le prepotenze della giunta militare birmana o dai comunisti  laoziani contro i contadini che producevano il papavero - contadini spesso ridotti in schiavitù per produrre quel fiore dalle stesse persone che oggi li dovevano forzare ad abbandonare il business. in Afghanistan si presentò invece il problema di come agire per aggredire l'80% della produzione mondiale di oppio in un paese dove non c'era un governo e dove la pianta del papavero rappresentava l'unica fonte di entrate certa per la popolazione civile e i vari gruppi armati che si combattevano e che, si iniziava a capire, rappresentavano una minaccia anche per l'occidente (nell'estate del 1998 nel giro di pochi giorni furono attaccate le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania provocando centinaia di morti).

Arlacchi non sentì ragioni, anche perché essendosi presentato all'ONU proclamando che l'Italia aveva sconfitto la mafia doveva mantenere la barra fissa sul training autogeno, e dal giorno dopo l'adozione della sua piattaforma dedicò tutto se stesso all'impresa. Peccato che nessun paese decise di aumentare i propri finanziamenti all'UNDCCP per scacciare tutte le droghe dalla faccia della terra in 10 anni. Non lo fecero gli Stati Uniti, del tutto contrari alle strategie relative all'Afganistan, la segretaria di Stato Madeleine Albright aveva sostenuto fin da subito la campagna di Emma Bonino "un fiore per le donne di Kabul", non lo fece la Commissione europea che da tempo aveva manifestato le proprie contrarietà alle fumigazioni aeree non lo fecero Svezia e Giappone, due paesi dal proibizionismo dal voto umano, che decisero di concentrare le loro donazioni sul lato sanitario della vicenda inventandosi campagne popolari a favore di anti-scientifiche terapie di disintossicazione.

Alla sessione speciale sulle droghe fece immediatamente seguito la Conferenza diplomatica incaricata di adottare lo statuto della Corte penale. Tre le le moltissime cose che il Partito Radicale e le sue associazioni seguivano all'interno del Palazzo della FAO a Roma in quei giorni, c'era l'esclusione della pena di morte e il ritorno del "narcotraffico" tra i crimini di competenza della Corte. Nel 1988 il presidente di Trinidad e Tobago Robinson si era appellato alle Nazioni unite perché si creasse una corte internazionale che assicurasse alla giustizia i trafficanti di droga che seminavano il terrore nei Caraibi e che, da poco, avevano suscitato un colpo di stato a Port of Spain.